Santa Maria Bertilla nacque a Brendola nella frazione di Goia il 6 Ottobre 1888 da una famiglia contadina molto povera e analfabeta. Il suo nome di battesimo è Anna Francesca, anche se da tutti in paese era chiamata Annetta, la sua infanzia non fu molto facile, per colpa di quel padre che in preda al vino e alla gelosia, copriva la moglie di rimproveri, per poi sfociare in urla e botte. Per superare questi terribili momenti Anna imparò dalla madre a rifugiarsi nella vicina chiesa di San Michele, percorrendo l’antica via dei carri. Vi andava ogni mattina , prestissimo, prima di andare a lavorare nei campi con gli zoccoletti sotto il braccio per non sciuparli. Là capiva davvero cosa è una famiglia e si sentiva in pace con tutti. A soli otto anni e mezzo il parroco l’ammise alla prima comunione, anche se l’età che la consentiva era solo di 11, forse uno sguardo più vero e profondo gli aveva fatto capire che quella creatura era già pronta. A dodici anni sempre grazie al parroco che tanto le voleva bene, entrò a far parte dell’associazione “Figlie di Maria” e a soli quindici anni decise di consacrarsi a Dio entrando nell’ordine delle suore Maestre di Santa Dorotea Figlie dei Santissimi Cuori di Vicenza. Al momento della professione religiosa prese il nome di Maria Bertilla.
Nella sua vita esperimentò la profonda bellezza e verità di parole come “obbedienza”, “povertà”, “umiltà”, “silenzio”, “premura”. E le fu congeniale scegliere il posto meno ambito, il lavoro più faticoso, il servizio generoso e privo di lamento. “Faccio io, diceva così spesso, per compiti che nessun altro desiderava, faccio io. Tocca a me”.
Venne destinata all’ospedale di Treviso e qui trovò ad a attenderla una superiora efficiente e sbrigativa che le diede un’occhiata, la giudicò subito e la spedì nella cucina delle suore, come sguattera, senza nessuna possibilità di contatto con medici o malati. Restò per un anno intero, senza interruzioni, tra i fornelli, le pentole e l’acquaio.D’altra parte, in noviziato, ella aveva scritto questa preghiera nel suo quadernetto di appunti spirituali: “Gesù mio, ti scongiuro per le tue sante piaghe di farmi mille volte morire piuttosto che permettere che io compia una sola azione per essere veduta!”.
A vent’anni, Bertilla iniziò la sua missione di infermiera. Il reparto era quello dei bambini contagiosi, quasi tutti malati di difterite, da sottoporsi a tracheotomia o intubazione, bisognosi di assistenza quasi continua: una distrazione poteva costare la vita di un bambino. Oltre tutto si viveva in regime quasi continuo di urgenza, senza orari, senza contatti con l’esterno, nemmeno per la messa quotidiana.
Fu da un lato il contatto coi bambini, dall’altro la partecipazione a quella sofferenza così tragica e innocente che sembrarono togliere a Bertilla ogni impaccio, ogni timidezza e la resero “dolce, tranquilla, serena, sagace”, come dissero i medici. Conviene rileggere le testimonianze dei dottori che la ebbero come assistente. Eccone una: “Giungono nel reparto bambini difterici; sono stati strappati dalla famiglia e si trovano in un tale stato di agitazione, di disperazione, da non poter facilmente calmarli; per due o tre giorni sono come delle bestioline, botte, pugni, rotoloni sotto il letto, rifiuto di cibo. Ora suor Bertilla riusciva rapidamente a diventare la mamma di tutti; dopo due o tre ore il bambino, prima disperato, si aggrappava a lei, tranquillo, come alle gonne della mamma, e l’accompagnava sempre nelle sue diverse mansioni. Il reparto presentava, sotto la sua azione, uno spettacolo commovente: grappoli di bambini attaccati a lei. Reparto veramente esemplare”.Può sembrare solo un quadretto simpatico, ma poi i medici continuano descrivendo ciò che accadeva con i genitori quando si trattava di annunciar loro la morte del bimbo. Solo lei riusciva a trovare le parole adatte a vincere la disperazione. I dottori stessi, del resto (anche i novellini terrorizzati dal dover eseguire le prime tracheotomie” , se la trovavano accanto sempre, senza ombra di nervosismo o di stanchezza, nei momenti più critici e agitati. “Suor Bertilla mi ha dato sempre l’impressione che sopra di lei ci fosse un essere che la spingesse e la guidasse; perché una persona che si eleva, nella sua missione di pietà e di carità, sulle altre, che pure vivono sotto le stesse leggi, agiscono sotto la stessa tensione, mentre non aveva (guardata così materialmente) nessuna qualità o d’intelligenza o di cultura che la rendesse superiore alle altre, dava realmente l’impressione che si muovesse… come dietro l’azione di un angelo che la conducesse. Non è possibile che un medico pensi a una persona la quale, come suor Bertilla, passa una, due, tre, quindici notti insonni, e si presenta sempre uguale, incurante di se stessa, senza dar segno di stanchezza e del male che la minava, se non ammettendo, ripeto, qualche cosa dentro o fuori di lei che la sublimi… Non solo, ma il fatto è che
ella esercitava sugli altri una tale influenza, una tale persuasione che non è riscontrabile in altre persone…” .
Nel 1915 scoppiò la grande guerra; quando il Piave divenne la linea più avanzata, il pericolo fu immediato e costante: “In questo tempo di guerra e di terrore, scrisse Bertilla nel suo solito quadernetto, io pronuncio il mio “Ecce, venio!”. Eccomi, Signore, per fare la tua volontà, sotto qualunque aspetto si presenti, di vita, di morte, di terrore”.Può sembrare una pia preghiera da suora. Era la scelta silenziosa ed eroica, ogni volta che i bombardamenti martellavano la città e tutti si precipitavano nei rifugi, di restare accanto ai letti dei malati intrasportabili a pregare e a distribuire bicchierini di marsala a quelli che svenivano dallo spavento.Diventava pallida, terrorizzata com’era forse più ancora degli altri, ma restava. “Non ha paura, suor Bertilla?”le chiedeva la superiora. “Non stia in pensiero, Madre, rispondeva, il Signore mi da tanta forza che la paura non la sento neppure”. E così la mandarono al Lazzaretto (una dipendenza dell’ospedale), situato vicino allo snodo ferroviario, quello più preso di mira dalle incursioni aeree, a sostituire una suora che non reggeva allo spavento: “Non pensi a me, Madre, diceva alla responsabile che si sentiva un po’ in colpa chiedendole questo sacrificio, mi basta di poter essere utile…”. Nel 1917, dopo l’invasione del Friuli, l’ospedale dovette essere evacuato e i malati furono ripartiti in tre gruppi. Suor Bertilla partì con duecento ricoverati verso la Brianza e le affidarono gli ammalati di tifo. Poi, all’inizio del 1918 la mandarono in provincia di Como in un sanatorio per militari tubercolotici, e vi restò un anno. Raccontare come ella visse una tale Via Crucis vorrebbe dire ripetersi; perché la santità di questa donna umile consistette proprio nella continuità, mai interrotta, di parole, gesti, atteggiamenti, decisioni che andavano sempre nella stessa direzione, con quella quotidiana fedeltà a tutta prova che è il miracolo più grande cui possiamo assistere su questa terra.